Turchia
2004
DIARIO DI VIAGGIO
Prendiamola alla lontana…
Un po' più
di una decina di anni fa io e Claudia (qualcosa di più
dell'altra metà dei miei
viaggi) stavamo programmando un viaggio in Anatolia, destinazione Monte
Ararat,
con l'intenzione di raggiungerne la vetta. Sfortunatamente non avevamo
fatto i
conti con la situazione locale che fece in modo di sfilarci la mappa da
sotto
il dito dove puntavamo il nostro itinerario nella Turchia orientale.
Il tempo è
passato, i viaggi, ormai quasi solo in moto, si sono allargati al di
là del
"giardino di casa" dell'Europa continentale e, mentre tornavamo da un
breve viaggio in Tunisia, ci è tornato in mente quel vecchio
progetto. I primi
mesi del 2004 sono passati così a caccia di carte, guide e
notizie su come
attraversare la Turchia, un paese di cui sapevamo all'inizio assai
poco. Un
itinerario di massima stava crescendo con un occhio alle "strade
verdi" sulla mappa e agli "highlights" della guida: traghetto
diretto dall'Italia alla Turchia, veloce avvicinamento verso l'estremo
orientale dell'Anatolia e ritorno a tappe verso occidente. Mancavano
però tutta
una serie di notizie pratiche su come affrontare un viaggio
all'apparenza molto
impegnativo. Sul web, tra le comunità italiane non si trovavano
notizie utili o
recenti per il nostro progetto e sembrava, consultando una delle
risorse più
interessanti per i viaggi in moto più lunghi
(www.horizonsunlimited.com), che
la Turchia fosse "solo" una bella parentesi tra Europa e Asia
all'interno di più impegnativi giri del mondo. Con un po' di
pazienza e fortuna
sono così arrivato sui siti di One More Mile e di Enduro
Motosiklet Kulubu che
non ho esitato a contattare direttamente. Ne è nato uno scambio
di e-mail con
Paolo (OMM) e con Turgay (EMOK) che è stato determinante a
convincermi della fattibilità
del viaggio rispetto ai miei mezzi ed agli obiettivi che ci eravamo
posti.
Tre settimane
di tempo a disposizione a cavallo tra maggio e giugno: una settimana
passata
sui traghetti e solo due settimane per affrontare un territorio che
equivale ad
attraversare buona parte dell'Europa occidentale, dall'Italia al
Portogallo, e
con una ricchezza umana, di paesaggi e di storia che meriterebbero ben
altri
tempi!
Giornata
prima
Il viaggio è
iniziato con una lunga tappa che ci ha portato da Cesme a Kirikkale, a
est di
Ankara. Freddo pioggia e vento, variamente combinati, ci hanno
accompagnati per
buona parte di una giornata in cui le uniche soste sono state quelle
per i
rifornimenti di carburante. In una Lokanta dove ci siamo fermati per il
pranzo
abbiamo avuto il primo contatto con la curiosità gentile e
coinvolgente che i
turchi ci hanno quasi sempre riservato: da quel momento sono state
tantissime
le volte in cui ci siamo trovati a "chiacchierare", con l'immancabile
bicchierino di tè, sul nostro viaggio, sulle strade, sul calcio.
Arriviamo a
Kirikkale, anonima e polverosa città a est di Ankara, che
è quasi buio e
alloggiamo in un albergo triste e relativamente costoso vicino ad una
caserma.
Giornata seconda
La mattina è
fredda, ma almeno non piove e si riparte verso Amasya. Una deviazione
ci porta
al sito ittita di Hattusa. Una guida (probabilmente abusiva) ci cattura
all'ingresso, e accettiamo i suoi servizi sperando che possa
raccontarci
qualche cosa di più delle stringate notizie della Lonely Planet.
In verità,
nonostante parli un italiano tollerabile, sarà poco meno di un
impiccio.
Riprendiamo la strada e dopo alcuni vertiginosi saliscendi su strade
infestate
da camion arriviamo ad Amasya. La città offre alcuni spunti di
interesse (le
tombe scavate nella roccia, il pittoresco centro storico affacciato sul
fiume),
ma nell'economia del nostro viaggio forse ci saremmo potuti risparmiare
questa
ampia "gobba" del nostro itinerario. La moto viene parcheggiata
nell'elegante cortile dell'albergo e condivide il parcheggio con il
Transalp di
Francesco. Si realizzano così una serie di coincidenze
rarissime: italiani,
motociclisti, fuori stagione e in una città fuori dagli
itinerari più battuti. È
un'occasione per scambiare qualche impressione di viaggio e facciamo
tesoro di
alcuni suggerimenti che spenderemo a tempo debito (Francesco sta
chiudendo un
itinerario sostanzialmente simile a quello che noi invece stiamo
iniziando).
Una caratteristica comune di tutti gli alloggi che abbiamo avuto è l'assenza di qualsiasi serio oscuramento alle finestre che, combinata con l'orario della prima preghiera e con il sole che spunta verso le cinque, faceva sì che si era in piedi e pronti a far colazione già verso le sette. Un po' una vita da caserma, ma ne è valsa la pena. Insomma, con il tempo che si è finalmente stabilizzato sul bello, si riparte presto. L'intenzione è di puntare le vallate montane a nord di Erzurum. Purtroppo, dopo più di 600 chilometri dobbiamo accontentarci di alloggiare in questa città, consolati comunque dai piatti di un ottimo ristorante poco lontano dall'albergo.
Giornata terza
È mattina,
una bellissima giornata, fa freddo e, dopo avere visitato brevemente
alcuni
monumenti della città, partiamo finalmente per le montagne: esco
con la moto
dalla hall dell'albergo e saliamo alla scoperta delle "valli
georgiane", profonde valli incassate tra le alte montagne del Ponto. In
alcune valli secondarie si trovano nascosti alcuni gioielli di
architettura
cristiano-armena che fatichiamo non poco a trovare: una chiesa è
diventata
moschea ma, essendo venerdì, giorno di preghiera, ci viene
gentilmente spiegato
di tornare più tardi. Più tardi quanto? Non si riesce a
capire, ma la
prospettiva di rimanere confinati per ore in uno sperduto villaggio di
montagna
non ci piace e riprendiamo il cammino. Delle altre chiese ammiriamo le
volte
scoperchiate, le cupole appese al cielo come per magia, i finissimi
lavori
degli scalpellini sulla trachite, l'ignoto alfabeto georgiano e le
colonne sostituite
da puntelli di legno. Muoversi tra queste macerie, tra mura annerite
dai falò e
i resti degli animali che vi hanno trovato riparo come in un
caravanserraglio è evidentemente pericoloso, ma
l'impressione è
violenta. Riprendiamo il cammino verso Kars su strade di montagna
deserte.
Cambia l'architettura dei villaggi: scompaiono le case di legno con le
tettoie
rialzate (stile "georgiano"); adesso i villaggi sono agglomerati di
costruzioni rettangolari di mattoni crudi, unità poverissime di
venti o trenta
metri quadri. Comincia anche a farsi vedere l'esercito: le casermette
della
Jandarma diventano postazioni protette da filo spinato o mezzi blindati
appostati in trincea. I paesi sono fatiscenti e il loro attraversamento
si fa
impegnativo su strade che diventano piste fangose. Si fa tardi e
procediamo
spediti su strade mozzafiato, circondati da montagne innevate e fiumi
impetuosi
che scorrono più in basso. Gli ultimi chilometri li facciamo in
corsa contro il
buio ed arriviamo a Kars mentre si accendono le luci della
città. Kars si
presenta più che buia, oscura, e le condizioni delle strade sono
indescrivibili. Il triste albergo però offre, al di là di
un paesaggio da
discarica industriale, una vista spettacolare sui monti che chiudono il
confine
con la Georgia.
Giornata quarta
È sabato e
una luce sfolgorante di montagna ci accompagna per adempiere alle
formalità per
accedere alla città fantasma di Ani, al confine con l'Armenia.
Perdiamo quasi
un'ora per scoprire che ormai è sufficiente acquistare il
biglietto presso il
locale museo, mentre la guida descriveva un faticoso iter burocratico
che
prevedeva tre passaggi successivi tra passaporti e scartoffie varie.
Ani da
sola varrebbe la fatica di tutto il viaggio: l'unicità' del
luogo e la sua
spettrale bellezza ci trattengono per diverse ore sul posto. Lasciando
Ani
cerchiamo di individuare un percorso lungo il confine verso sud, ma la
mancanza
di indicazioni e l'impossibilita' di trovare la strada in un dedalo di
viottoli
fangosi nel villaggio che attraversiamo ci inducono a riprendere il
giro largo
che ripassa da Kars. Camion militari carichi di truppa in assetto da
guerra
insieme ad altri passeggeri dall'aria stracciata e infelice sono gli
unici
compagni di strada. Ogni tanto l'altipiano disabitato è
punteggiato dalle
postazioni dei nomadi con i loro animali al pascolo. Ci fermiamo per
delle foto
e un premuroso camionista si ferma per chiederci in turco se va tutto
bene. In
quell'ambiente già troppo severo questo incontro, per quanto
segnato da una
comunicazione elementare, scalda un po' la giornata. Svalichiamo i
2.700 di un
passo e iniziamo a costeggiare le pendici occidentali del Monte Ararat,
il
gigante nevoso dove si vuole che si sia fermata l'Arca di Noè al
termine del
diluvio universale. A giudicare dalla povertà che si vede in
giro, le
conseguenze a lungo termine della leggendaria alluvione non si devono
essere
ancora esaurite. Dovunque ci si fermi, anche in posti all'apparenza
deserti,
compaiono in breve bambini cenciosi che ripetono piagnucolosi e
insistenti il
mantra "bombon-money-stylo". La prosperità delle regioni
prossime al
Mar Nero qui non sembra nemmeno lontanamente immaginabile; in giro si
vedono
solo sciami di bambini mendicanti, anziani e donne, mentre non vi
è traccia di
adulti maschi. Continuiamo il viaggio e attraversiamo a fatica
Dougubayazit,
polverosa città di confine con l'Iran, presidio corazzato di
forze speciali e
punto di transito di interminabili file di TIR. Cercando di evitare la
folla
dei procacciatori di affari, saliamo al palazzo di Ishak Pasa.
Nonostante
qualche restauro discutibile, l'architettura del Saray, un nido
d'aquila tra
l'altipiano anatolico e le montagne che segnano l'attuale confine con
l'Iran,
desta impressione per la folle ricchezza di questa costruzione sperduta
in
mezzo alle montagne. Questo che è un importante punto di confine
tra Turchia e
Iran segna il punto più orientale toccato dal nostro viaggio:
è il momento di
"rimbalzare" verso occidente.
Giornata quinta
Il nostro
viaggio ci porta ora verso sud, in direzione del Lago di Van. A Van
(ennesima città
polverosa e triste) deviamo un ultima volta verso oriente per visitare
prima
Cavustepe, con i resti di una città urartea e quindi la fortezza
di Hosap, un
impressionante castello costruito in gran parte in mattoni crudi.
Guzelsu, il
villaggio alla base del castello, punto di sosta delle carovane di
camionisti,
sembra un'unica brulicante e gigantesca officina meccanica, con un
impressionante odore di olio, frizione bruciata e kebab. Durante la
visita del
castello incontriamo una famiglia locale molto incuriosita dalla nostra
presenza e ne nasce uno scambio di fotografie con queste simpatiche
persone che
vogliono farsi fotografare con noi. Più volte nel corso del
nostro viaggio capiterà
di suscitare simili curiosità. Sulla via di rientro al Lago di
Van facciamo
esperienza con un posto di blocco dell'esercito. Per i militari il
controllo
dei passaporti degli stranieri sembra più che altro il pretesto
per un
diversivo nelle noiose giornate trascorse in mezzo alla polvere e al
fumo dei camion:
le solite chiacchiere in "angloturco" accompagnate dall'immancabile
bicchierino di tè preparato nell'altrettanto immancabile
caldaietta che non può
non completare l'allestimento della postazione. Finalmente arriviamo al
Lago
che percorriamo lungo la spettacolare sponda meridionale fino al punto
di
imbarco per l'isolotto di Akdamar. Lasciata la moto con i bagagli sulla
sponda
del lago, dopo mezz'ora di navigazione, sbarchiamo ai piedi di un'altra
eccezionale testimonianza della storia armena in Turchia: una chiesa
del X
secolo ornata di grandi bassorilievi lungo tutto le pareti esterne che
narrano
episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. C'è da chiedersi
quanto a lungo
dureranno ancora questi monumenti, veri gioielli abbandonati
dall'incuria delle
autorità alla insensibilità dei visitatori che si
arrampicano come formiche sui
delicati bassorilievi e sulle altre decorazioni della chiesa. La lunga
giornata
termina a Tatvan (buia, polverosa, ecc.), dopo che in un altro posto di
blocco
ci fermiamo a chiacchierare con un altro militare, vero tipo da
spiaggia, che
non riesce a nascondere il rimpianto per la sua Antalya, capitale turca
del
turismo mediterraneo ("girls, disco, sea; why don't you go there?" ci
domanda stupito).
Giornata sesta
In Turchia
ci sono due importanti montagne con lo stesso nome, Nemrut, e sono
entrambe sul
nostro itinerario. Il primo Nemrut Dagi è un vulcano spento nel
cui cratere si
trovano alcuni laghi che con il bel tempo sembrano le tipiche
fotografie dei
puzzle da 3.000 pezzi. Il lunedì mattina iniziamo la salita
sulla tortuosa
strada che sale fino al bordo del vulcano per scendere nel suo cratere.
Ci
fermiamo a fotografare i tappeti stesi ad asciugare sulle rocce presso
un
villaggio, le tartarughe che attraversano la strada e le pareti di neve
che
dominano la strada. Giunti in cima, la strada diventa un dedalo di
piste
sterrate che affrontiamo con la necessaria attenzione, visto che
intorno non c'è
anima viva. La macchina fotografica fa gli straordinari e lasciamo il
cratere a
malincuore per scendere di nuovo verso il Lago di Van. Sulla strada,
una
fotografia ad un angolino pittoresco, diventa un interminabile sosta
ospiti di
un allegra famiglia che ci lascia andare a malincuore non senza averci
offerto
il tè, e poi del pane e del formaggio per il viaggio. La strada
è lunga. Dopo
una breve sosta a visitare il cimitero di Ahlat, ci dirigiamo
decisamente verso
sud ovest. Attraversiamo una valle devastata dalle alluvioni, dove
ciò che
resta della strada sono talvolta stretti percorsi franosi sul ciglio di
un
fiume che non ha ancora smaltito le piene del disgelo.
L'attraversamento di
Bitlis (a parte le immancabili considerazioni su polvere e grigiore)
è un primo
assaggio dell'ambiente umano che prevarrà nei prossimi giorni:
affollati giardini
da tè frequentati da soli uomini accovacciati su bassi sgabelli;
volti baffuti
sotto kefiah e pantaloni con il cavallo basso e con la caviglia stretta
diventano la norma. Perdiamo quota velocemente e per la prima volta
dopo giorni
abbiamo caldo. A malincuore passiamo velocemente da Hasankeyf,
fermandoci
appena il tempo per poche fotografie, e arriviamo a Mardin stravolti
dal caldo
e dalla stanchezza che ormai è buio. Ignari delle alternative,
prendiamo
alloggio in un fetido trestelle e ceniamo in un magnifico ristorante
che,
scopriremo poi, offriva anche eleganti e comode stanze per dormire.
Giornata settima
Il giorno
dopo affrettiamo il passo verso Urfa. Una volta tanto una città,
sempre
polverosa, ma con un bel centro storico. Appena giunti in albergo (per
trovarlo
ci affidiamo ad un esoso tassista che ci scorta tra le strade del
centro) la
stessa mattina lasciamo la moto nel cortile della cucina e ci affidiamo
ai
trasporti locali (i dolmus, taxi collettivi) per raggiungere Harran,
città di
antichissima fondazione, nota per le sue caratteristiche costruzioni in
fango e
pietra. La visita di Harran è funestata dall'indesiderata
presenza del giovane
Ibrahim, guida abusivissima, che ci porta a spasso per il villaggio e a
visitare i resti di una moschea e di un bel castello. Nell'assolato
pomeriggio
si muovono solo figure losche che ci inducono a muoverci con molta
circospezione ed a sospettare di tutto. Una caratteristica simpatica di
questo
villaggio sono i letti rialzati per dormire la notte al fresco sotto le
stelle.
Il giovane Ibrahim in qualche modo ci "protegge" e riusciamo a
evitare gli sciami di bambini accattoni, qui particolarmente
fastidiosi, ma non
c'è modo di evitare la bottega dello "zio" dove dobbiamo
acquistare
qualche bibita e un foulard (made in India, naturalmente) per una cifra
non
alta ma decisamente esorbitante per gli standard locali. Sempre
più
indispettiti riusciamo ad abbandonare Harran con un dolmus ed a
rientrare a
Urfa in tempo per visitare il bazar (giardini da tè, bambini che
lavorano nelle
botteghe dei ramai, stoffe, cianfrusaglie, tè, spezie: insomma,
un bazar) e poi
l'area monumentale intorno alla Grotta di Abramo. Si cena sulla
terrazza
panoramica di un buon ristorante al limite del centro storico e,
tornati in
albergo, abbiamo la fastidiosa sorpresa di trovare una festa
folcloristica che
ci costringe ad andare a dormire un po' tardi per le nostre abitudini
(mezzanotte!).
Giornata ottava
Lasciamo
Urfa con un grosso ritardo a causa della colazione che tarda ad
arrivare. In
generale vale la pena attendere per la colazione: negli alberghi
normalmente è
a buffet, e permette di nutrirsi a sufficienza per potere saltare il
pranzo
senza troppi sacrifici e rifarsi a cena in un buon ristorante. Presa la
direzione nord, potendo scegliere tra la strada che supera il Lago
Ataturk
dalla diga (più veloce) e quella che usa un traghettino per
congiungere le due
sponde, scegliamo la seconda, memori dei divertenti passaggi sui
"bac" sulla foce della Senna, in Normandia. Sfortunatamente il tempo
sprecato
a Urfa (dove abbiamo anche sbagliato strada per uscire dalla
città) ci fa
perdere il traghetto: lo vediamo dall'alto della strada e ci
costerà ben due
ore di attesa sotto una sommaria tettoia, tormentati dal caldo e dalle
mosche.
Ci distrae la varia umanità di nomadi (?) in trasferimento su
camion, torpedoni
carichi di donne in chador e macchine che al loro arrivo generano
infelici
vomitarori. Lasciare il lago e recuperare quota non ci salva dal clima
afoso e
opprimente, combinazione dell'umidità' generata dall'immenso
bacino
sull'Eufrate e dall'aria caldissima proveniente da sud. Il pomeriggio
prosegue
in interminabili perdite di tempo, tra segnaletica inesistente e
ricerca di
carburante, tanto più fastidiosa se si pensa che stiamo girando
in mezzo a
pozzi di petrolio. Ogni sosta è una pena, aggravata dalla
coincidenza di essere
finiti in mezzo ad un vero e proprio sciame di minibus carichi di
turisti che
fanno il nostro stesso itinerario, senza che si possa fare nulla
per
evitarli. Le strade sono, come sempre, infami: strette, sconnesse e
malamente
tracciate, ma l'itinerario si svolge in uno scenario che, se non ci
fosse
quella fastidiosa caligine pomeridiana, sarebbe di grande fascino. La
nostra
giornata termina a Karadut, pronti ad affrontare il vero "must" della
Turchia; l'alba sul Nemrut Dagi. A Karadut, modesto villaggio
all'inizio della
salita verso la cima della montagna, prendiamo alloggio in una Pansiyon
il cui
proprietario supplisce con la sua simpatia ad una situazione non delle
più
comode, ma tant'è: prevediamo di abbandonare la sua Pansiyon
prima delle 4 del
mattino!
Giornata nona
È ancora
buio quando, pagato il biglietto di ingresso, saliamo spediti sul
pavé
superando i minibus dei ritardatari. Giungiamo al parcheggio sommitale
e ci accodiamo
al serpente umano che percorre lo stretto sentiero. Tutti sulla
terrazza ad
ammirare il sole che "dovrebbe" sorgere. Alle 4.45 il chiarore rivela
un'alba caliginosa e grigia. Una guida mostra la copertina di un libro
e dice
al suo gruppo che "quella" è l'alba che si dovrebbe vedere...
Poco
dopo le 6 il tumulo e le due terrazze monumentali sono finalmente
deserte ed il
sole comincia a farsi vedere sopra lo spesso strato di foschia. Si
intravede
qualche timido gioco di luce, in verità assai poco suggestivo
data l'altezza
del sole, ormai tale da non produrre quelle ombre lunghe che, forse, si
sarebbero potute invece godere al tramonto (ad averlo pensato!).
Scendiamo con
circospezione lungo la strada che al buio avevamo percorso ben
più velocemente,
ignari delle buche e degli altri ostacoli. Prima di arrivare al
check-point di
ingresso, svoltiamo a destra e ci tuffiamo giù per una
ripidissima strada verso
la città di Arsameia, altra antica capitale di un regno
anatolico (credo una
strada tristemente nota ad altri lettori di OMM Bulletin). Ormai fa
caldo e,
dopo la visita, ci rifocilliamo presso il magnifico punto di ristoro
vicino al
sito. Una delle migliori colazioni di tutto il nostro viaggio in
Turchia, a
base di formaggio, burro, pane e altri prodotti del villaggio, mentre
l'anziano
genitore dei ragazzi che gestiscono il rifugio zufola ogni tanto con il
suo
flauto. Si è fatto tardi e dobbiamo affrettarci. Abbandoniamo le
velleità di
allargare il giro verso Malatya e puntiamo il più direttamente
possibile verso
la Cappadocia. Ci lasciamo finalmente alle spalle le caligini delle
sponde del
Lago Ataturk e, dopo Kahraman, risaliamo finalmente in montagna,
inseguiti da
un pesante temporale che ci sfiora appena. Ormai è l'imbrunire
quando
approdiamo a Uchisar, presso una Pansyon gestita come una chambre
d'hote da una
coppia di bretoni che ci accoglie calorosamente.
Giornata decima e
undicesima
La
Cappadocia, per quanto si tratti di un'area molto poco estesa,
meriterebbe da
sola una settimana di viaggio, molto rilassato, evitando con cura la
domenica e
cercando di cambiare due o tre sistemazioni: noi siamo stati bene per
tre
giorni a Les Terrasses d'Uchisar; altri consigliano l'Esbelli a Urgup.
Urgup,
rispetto a Uchisar, ha lo svantaggio di essere un posto molto
trafficato e, dal
mio punto di vista, molto meno poetico. Comunque, non mancano le
possibilità di
alloggiare senza finire inghiottiti dai grandi e orribili alberghi per
i gruppi
organizzati. È incredibile come spostandosi anche di pochissimo
si trovino dei luoghi
di grande fascino ad esclusivo beneficio di chi ha avuto la bravura di
trovarli: città sotterranee, castelli naturali, case e conventi
scavati nella
roccia costellano una regione assolutamente unica al mondo dove,
nonostante il
massiccio traffico turistico, alcuni villaggi mantengono abitudini di
vita
assolutamente tradizionali. Serve ben altra penna che non la mia per
descrivere, anche sommariamente, la travolgente bellezza della
Cappadocia, una
bellezza che annulla le non poche contraddizioni del luogo. Ritornano
in mente
le vallate solitarie, le città sotterranee (abbiamo visitato da
soli, e questo è
molto importante, quella di Ortahisar, piccola ma non meno
interessante), le
incredibili forme delle rocce e l'espressione artistica delle
architetture
antiche. Se dovessi tornare in Turchia non saprei come rinunciare a
tornare da
queste parti.
Giornata dodicesima
Decisamente
a malincuore lasciamo la Cappadocia puntando ancora verso ovest.
Iniziamo con
una brutta e lunga deviazione verso le valli di Ilhara (raccomandabili
se
raggiunte da nord, ma molto meno se, come noi, le si raggiunge da est).
Si
attraversa l'interminabile spianata del lago salato (Tuz Golu) e, dopo
una
sosta per visitare il caravanserraglio di Sultanhani si arriva a Konya
che
ormai fa buio. Ormai l'arrivo al buio è diventata una
barzelletta, nonostante i
saggi proponimenti di interrompere il viaggio non oltre le 18.00, in
modo da
viaggiare sicuri e poter scegliere con comodo la sistemazione.
C'è da dire che
la guida EDT è molto precisa nelle indicazioni e che, il
più delle volte, gli
alberghi nelle città sono tutti vicini ai punti nevralgici
(grandi moschee,
bazaar, otogar-stazione dei pulman), per cui la ricerca non è
difficile;
tuttavia, arrivando per tempo si ha la possibilità di scegliere
e maggiori
spazi di contrattazione sul prezzo (sceso anche da 80 a 50 milioni di
lire per
la stanza con prima colazione).
Giornata tredicesima
Konya è,
diversamente da tante altre, una città dall'aspetto florido e
ordinato anche in
periferia. Nonostante la guida la descriva come una specie di
roccaforte del
tradizionalismo religioso (è comunque il più importante
centro sufico), appare una città cosmopolita, tranquilla e, nel
piccolo centro storico, gradevole. Vi
passiamo la mattina e, peggiorando il tempo, decidiamo di fermarci
anche a
pranzo in un elegante ristorante presso un'antica casa. Una breve
tregua della pioggia ci permette di partire purtroppo con un
ritardo che sconteremo più tardi. Ci spostiamo verso un'area
nota
come la "regione dei laghi". La prima tappa è Beysheir,
simpatica
cittadina sulle rive di un bel lago dove visitiamo una moschea il cui
interno è
una vera foresta di colonne di cedro. Qui il muezzin spiega ai pochi
turisti,
un po' in tedesco e un po' in turco, il succedersi delle preghiere e le
differenze di stile nel canto arabo e in quello turco. Purtroppo
abbiamo fretta
(dobbiamo arrivare all'altro lago di Egridir) e, un po' incoscienti,
scegliamo
la più impegnativa strada che costeggia il lago di Beysheir
sulla sponda
occidentale. Sicuramente è stata la strada che ci ha regalato le
più belle
emozioni, con angoli incantati e vedute memorabili del tramonto sul
lago, però è
stata una corsa contro il tempo per arrivare sulla strada principale
con la
luce del giorno. Dopo avere attraversato alcuni villaggi veramente
sperduti su
strade che erano poco più che delle fangose mulattiere,
riusciamo a recuperare
la strada principale che ormai fa buio e mancano ancora 50 chilometri
all'arrivo. Procediamo lenti, sperando di potere seguire qualche
automobile per
indovinare meglio la strada (comunque, fortunatamente era una buona
strada) e
soprattutto per farci proteggere dal passaggio di animali stando nella
scia di
chi precede. Con un po' di fortuna veniamo superati da un furgone che
procede
ad una andatura sostenibile e finalmente arriviamo a Egridir alle
22.00, dove
prendiamo alloggio in una bella Pansiyon dove i gestori ci accolgono
con
simpatia ma anche con molto stupore.
Giornata
quattordicesima
Egridir è un
altro di quei luoghi che meriterebbero sicuramente una sosta più
lunga,
prestandosi ottimamente a fare da base per qualche bel giro a breve o
medio
raggio nella zona. Noi, frenetici come sempre, dobbiamo lasciare
l'isolotto
(unito da un istmo alla terraferma) per concludere gli ultimi due
giorni di
vacanza in Turchia. Ci dirigiamo verso sud, per vagare con segnalazioni
incerte
tra le montagne a sud di Isparta. Dopo l'affanno della sera precedente
è un bel
guidare su queste stradine che condividiamo solo con qualche camion
carico di
legname. Sbucando sulla statale incrociamo un folto gruppo di
motociclisti
turchi; ci avviciniamo pensando che magari potrebbero essere di uno dei
gruppi
che ho contattato prima di partire, ma non è altro che un
nutrito manipolo di
neozelandesi che hanno noleggiato le moto sul posto. Saluti, sorrisi,
finalmente un po' di chiacchiere in un inglese decente e poi si riparte
per
salire a Sagalassos, ennesime rovine, stavolta di epoca ellenistica,
sperdute
in cima ad una remota montagna. Riprendiamo li percorso verso occidente
guadagnando
continuamente minuti di luce che usiamo tutti, tanto da arrivare al
villaggio
di Pamukkale all'imbrunire, accolti da nuvole di zanzare e da
fastidiosi
procacciatori di affari che ci inseguono a bordo di motorini
letteralmente fin
fuori il paese. Pressati da questi elementi, scegliamo precipitosamente
l'alloggio in una Pansiyon squallida e costosa dove la notte verremo
tormentati
dall'unica zanzara scampata alla strage da me compiuta prima di
spegnere la
luce. Dalla terrazza della Pansiyon possiamo vedere le vasche di
travertino che
visiteremo il giorno dopo. Sono illuminate da fari colorati che
vorrebbero
rendere suggestiva una scenografia alla quale basterebbe la sola luce
della
luna per essere indimenticabile.
Giornata quindiicesima
Ultimo
giorno di vacanza, paziente lettore! Si prende la moto, scarica di
bagagli e si
sale verso le rovine di Hierapolis. Le raggiungiamo per strade
sterrate, dopo
che la mancanza di segnalazioni ci fa perdere la strada per l'ingresso
principale (una specie di grosso casello autostradale dove si paga il
biglietto). Involontari visitatori in nero, ci godiamo, per una volta
in abiti
leggeri, la visita del bel museo, dell'anfiteatro e di una
chiesa-martirium
alla sommità della città. La fortuna ci permette di
godere di un settore delle
vasche di travertino deserto di visitatori in quanto off-limits
perché si sta
girando un film; la troupe è in pausa pranzo e ci lasciano
fortunatamente passare;
lasciamo al resto del mondo l'assillo dei torpedoni che scaricano
comitive di
turisti in costume da bagno. Tornati alla Pansiyon ricomponiamo il
bagaglio e
prendiamo la strada per Cesme dove prenderemo alloggio in un bel
duestelle in
attesa di imbarcarci per l'Italia la mattina dopo.
Note utili
Due settimane per fare il
giro
dell'Anatolia interna bastano appena per fare un giro purtroppo
frenetico che
tocca le località più importanti. Sfortunatamente la
Turchia non è proprio a
portata di mano, ma meriterebbe spedizioni ripetute per approfondire di
volta
in volta la conoscenza di singole regioni. Andrebbe valutata la
possibilità di
spedire la moto per via aerea.
Con poco più di un
miliardo di lire
si può fare una bella vacanza.
Le strade solo raramente
in buono
stato: si va dal bitume liquefatto con un po' di brecciolino sparso,
all'asfalto malamente rabberciato. Nei pochi tratti ben tracciati e in
buone
condizioni c'era però sempre qualche brutta sorpresa in curva
che induce il
guidatore gagliardo ad una guida più che prudente. In compenso
la segnaletica è
mediamente migliore che in Italia. Gli attraversamenti delle
città sono spesso
fangosi e, soprattutto, ATTENZIONE ALLE ROTATORIE: diversamente che da
noi, chi
occupa la rotatoria deve dare la precedenza a chi vi si immette. Mentre
nelle città
il traffico ha un che di diabolico, fuori città il comportamento
dei pochi
automobilisti è sempre stato molto corretto. La polizia è
spesso presente e le
pattuglie sono sempre ben visibili e segnalate; lo dico perché
comunque, per
quanto si proceda con prudenza, è sempre molto facile superare i
limiti di velocità.
La migliore carta stradale
(che non
vuol dire che sia buona, ma va comunque bene) è la FMB
1:800.000. La guida
Lonely Planet si è comportata egregiamente, soprattutto nelle
indicazioni
relative agli alloggi, con solo due cattive indicazioni su undici
scelte. Ho
visto una guida in lingua tedesca molto ben fatta, ma non mi ricordo il
titolo.
La Routard, in lingua francese, è molto buona fino alla
Cappadocia compresa, ma
più a est è inutile. Un dizionarietto di turco può
essere di aiuto.
L'alloggio non è un
grosso problema,
ma è opportuno pianificare le tappe in modo da non trovarsi
sperduti tra
villaggi di montagna (magari ciò può portare delle
esperienze sicuramente
belle, ma le incertezze sono molte). Il livello dei trestelle è
quasi sempre
accettabile, ma abbiamo comunque tirato fuori per tre volte i sacchi
lenzuolo
quando la pulizia apparente lasciava un po’ a desiderare.
Non mancano i campeggi e
le campagne
sembrano fatte apposta per improvvisare un bivacco. Tuttavia,
soprattutto in
montagna, è raccomandabile la cautela a causa di branchi di cani
randagi che in
certe zone rappresentano un problema anche solo per fermarsi a fare una
fotografia (non ho avuto esperienza diretta, ma solo racconti, peraltro
di
prima mano).
Il cibo è buono e
le Lokanta
permettono di sfamarsi praticamente a qualunque ora, mentre i
ristoranti
permettono di togliersi qualche sfizio a prezzi ragionevoli. Credo di
avere
detto che le robuste colazioni, sempre comprese nel prezzo delle
stanze,
permettono di tirare l'intera giornata fino a cena. Deve piacervi il
tè, visto
che qualunque momento è buono perché ve ne venga offerto
un bicchierino ed è un
peccato rifiutare questo semplice gesto di ospitalità.
La benzina verde, che
costa più o
meno come in Italia, si trova sempre, comunque a distanze di sicurezza
per
un'autonomia "normale" (300 km) e l'abbiamo sempre pagata con carta
di credito.
Quanto alla moto, per il tipo di itinerario che abbiamo fatto noi, l'enduro stradale è l'ideale, ma nessuno impedisce di usare qualunque altro mezzo a due ruote, purché ben controllato prima della partenza e con un treno fresco di gomme. Un set di attrezzatura irrobustito, magari con qualche pezzo di ricambio basilare (leva e cavo frizione, lampadine, fusibili e camere d'aria) e il materiale per affrontare una possibile foratura devono essere considerati d'obbligo.